Un litro di acqua bollente, 5-7 grammi di foglie essiccate di Artemisia annua. Il tè così preparato potrebbe rivelarsi un importante presidio per contrastare le febbri malariche. Certo non bastano i quasi 230 milioni di confezioni di medicinali a base di artemisinina, il principio attivo estratto dall’ Artemisia annua, messi a disposizione nel 2010. Il farmaco non copre nemmeno il 30% delle zone endemiche, non arriva nei villaggi più isolati del Brasile e dell’ Africa sub-sahariana e il costo di quasi 2 euro a confezione lo rende inaccessibile. L’ Oms è chiamata a prendere posizione: farmaco o infuso? Il dibattito è arrivato proprio in questi giorni al Parlamento europeo dove, in occasione della Giornata mondiale del bambino africano, medici, ricercatori e decisori politici hanno dedicato un’ intera giornata di lavori all’ uso dell’ Artemisia annua nella cura della malaria e alle potenzialità dell’ infuso. «L’ efficacia dell’ infuso come potente antimalarico nell’ adulto è nota da secoli ed è provata scientificamente da molti studi – dice Maurizio Bonati, direttore del Dipartimento di salute pubblica del Mario Negri di Milano – i più recenti del 2009 condotti in Uganda e Kenya da Anamed dimostrano la drastica riduzione del Plasmodium falciparum nel 70-80% dei pazienti trattati, in Camerun la stessa ricerca ha evidenziato l’ abbattimento del parassita nel 93,7% dei soggetti, a Campinos in Brasile è in corso uno studio condotto dall’ Istituto di igiene. Adesso bisognerà provare la stessa efficacia nel bambino, magari utilizzando somministrazioni diverse». L’ infuso è già impiegato diffusamente in 25 paesi africani in combinazione con i tradizionali antimalarici. La piattaforma costituita di recente dall’ Istituto di cooperazione economica internazionale (Icei) mira a promuovere e incentivare progetti per diffondere coltivazioni programmate di Artemisia annua, pianta originaria della Cina che cresce un po’ ovunque e il cui utilizzo come antimalarico fu ampiamente sfruttato durante la guerra del Vietnam. «Coltivare la pianta significa allargare le sperimentazioni, tarare i lotti su quantità precise di principio attivo (0,8-1% del peso delle foglie secche) e arrivare capillarmente nelle aree più isolate», sottolinea Franco Borelli dell’ Icei. Restano le perplessità dell’ Oms su un potenziale rischio di resistenza legato al monouso dell’ artemisinina e all’ uso improprio nei villaggi. «L’ infuso in realtà contiene oltre all’ artemisinina decine di altri principi attivi, ha un breve vita con minimo rischio di sviluppare resistenze – spiega il dottor Bonati – inoltre, una volta partite le coltivazioni, si potrà capire meglio come e quando usarlo, da solo o con il farmaco, specie nei bambini e nelle donne incinte».
Tratto da Repubblica.it